“L’era digitale sta cambiando le nostre relazioni e la Chiesa non può fare finta di niente. Deve stare dentro, entrare in rete per accorciare le distanze con le persone”. Mons. Domenico Pompili, sottosegretario della Conferenza Episcopale Italiana, direttore dell’Ufficio nazionale per le Comunicazioni Sociali, si ritrova con facilità nel tema scelto quest’anno dall’Istituto Superiore di Scienze Religiose San Metodio, ovvero “pensare la comunicazione”. E la sua prolusione sul tema “La Chiesa nell’era digitale” tenuta ieri pomeriggio nel salone del centro convegni del Santuario della Madonna delle lacrime per l’ inaugurazione dell’anno accademico 2011/2012 dell’Istituto San Metodio ha affascinato tutti i presenti. L’incontro è stato preceduto dalla celebrazione eucaristica presieduta dal l’arcivescovo di Siracusa mons. Salvatore Pappalardo, Moderatore dell’Issr San Metodio.
“ La chiesa ha il dovere di leggere il proprio tempo, per poter rivolgere alle persone una parola che sia comprensibile e pertinente ai loro bisogni, alle loro sofferenze, alle loro speranze. Gli elementi problematici di oggi sono evidenti – ha detto Mons. Pompili -; tuttavia, essi fanno emergere in controluce i “perenni interrogativi”, e i “bisogni di verità non caduche” (CV) che la Chiesa deve saper prima di tutto ascoltare. La società disorientata e’ una società che non sa più comunicare, una società a rischio di afasia, perché non sa più (chi) ascoltare. La parola diventa vuota, soffocata dalla chiacchiera, o schiacciata dalla tecnica, e si spegne. Siamo così immersi nella realtà che non riusciamo più a vederla ne’ sentirla; abbiamo abolito le distanze e le distinzioni.
Basta guardarsi intorno, scorrere i titoli dei giornali, navigare in rete entrando in un Social Network per rendersi conto che il fondamentale bisogno di relazione io/tu si afferma prepotentemente, rifiutando anche giustamente alcuni limiti che la tradizione aveva imposto con la semplice forza della propria autorità, ma mostrando anche come le forme che la cultura contemporanea ha veicolato nella modalità subdola ma non meno normativa del “dato di fatto” risultino del tutto inadeguate.
Oggi, nell’era digitale e postmediale, dove tutti i media sono ri-mediati dalla rete, da una parte le possibilità di connessione sono aumentate in maniera enorme (siamo potenzialmente sempre connessi, e qualunque punto della rete e’ sempre accessibile), ma, dall’altro, non necessariamente queste potenzialità si traducono in realta’. Vale a maggior ragione oggi il paradosso che De Certeau riconosceva già negli anni ’60: la possibilità di comunicazione aumenta, ma la sua realta’ rischia di diminuire.
Se da una lato il termine “dispositivo” (o device ), di uso oggi largamente comune nella letteratura sui nuovi media, tende a suggerire l’idea di protesi atte a far accadere cose, a potenziare l’azione e la relazione umana, esso in realtà dall’altro sottende una sorta di idolatria della tecnologia.
Perché la comunicazione, anche quella digitale che apparentemente fa della interattività, reciprocità e condivisione il proprio tratto distintivo, rischia oggi di essere, paradossalmente, afasica? Fondamentalmente per due ragioni. La prima: Perché rischia di ridursi a un’emittenza (per quanto democratizzata), alla produzione di contenuti, all’enfasi fatica sul contatto senza praticare quella mossa che sola può inaugurare la comunicazione e creare le condizioni del suo avere luogo, che e’ l’ascolto.
E l’ascolto e’ sempre ascolto di altro. La seconda ragione dell’afasia e’ il fatto che l’alterita rischia di essere espunta dalla rete, sia perché viene tradotta nei termini equivalenti della varietà e della quantità, sia perché in rete si comunica soprattutto con chi ci assomiglia, sia perché la rete tende paradossalmente a produrre conformismo (se tanti hanno cliccato su “mi piace” allora il video, o il pensiero, o la frase saranno per forza belli) e un paradossale effetto “spirale del silenzio” su temi impegnativi e potenzialmente fonte di disaccordo.
Non e’ certamente un semplice paradosso il fatto che Benedetto XVI abbia scelto come tema per la prossima giornata mondiale delle comunicazioni sociali proprio quello del silenzio.
Solo l’essere umano abita, perché solo l’essere umano è libero. Abitare vuol dire infatti dare forma allo spazio, iscrivendovi i significati collettivamente rilevanti. Oggi la Chiesa e i credenti sono richiamati a una “responsabilità epocale” rispetto a questo “nuovo contesto esistenziale” (OP 51) che è lo spazio “misto” e orizzontale del web. Perché la tecnica è ambivalente: come dispositivo “disciplina”, mentre solo come linguaggio “poetico”, e come nuova via di apertura a un jnfinito che essa non può contenere può invece essere liberante.
Proprio oggi che i social network, da occasione di superamento dell’individualismo e ritessitura della socialità in un mondo frammentato e complesso, rischiano di trasformarsi in strumenti di ingegneria sociale, in nuove “macchine per abitare” ; che ci “rivendono” una parvenza di socialità per placare la nostra ansia da solitudine e intanto raccogliere tante informazioni utili per venderci prodotti e servizi in modo ancora più efficace (è questa, per esempio, la lettura che ne dà Bauman); che come dispositivi abilitanti, in una prospettiva puramente immersiva, alla fine disabilitano la nostra umanità, la Chiesa può pronunciare una parola di libertà.
La vera sfida è oggi quella della trascendenza: essere pienamente dentro, ma affacciati su un altrove; essere “nel web”, ma non “del web”.
Da una parte, dunque, la rete non e’ incompatibile con la presenza della Chiesa, che può non solo trovare il modo di “abitarla” ma, soprattutto, di renderla abitabile.
E, d’altra parte, esplorare le potenzialità della rete alla luce dell’esperienza di fede consente di coglierne le opportunità di umanizzazione e di sottrarsi alle logiche orchestranti della tecnica come dispositivo; sviluppando la nostra capacità di vivere la nostra integrità di esseri senzienti, pensanti, desideranti, in relazione tra noi e aperti all’infinito che ci costituisce e continuamente ci libera.
Fede e tecnica – ha concluso Mons. Pompili – non sono dunque concorrenti, ma collaborano alla nuova sintesi umanistica: “Solo assieme salveranno l’uomo. Attratta dal puro fare tecnico, la ragione senza la fede è destinata a perdersi nell’illusione della propria onnipotenza. La fede senza la ragione, rischia l’estraniamento dalla vita concreta delle persone ” (CV 74)”.
Subito dopo la prolusione, ha avuto luogo la presentazione dell’anno accademico da parte del direttore dell’Issr “San Metodio” don Nisi Candido. Infine la consegna dei Diplomi dei gradi accademici 2011.
Il San Metodio annovera nell’anno accademico in corso 31 docenti: 21 presbiteri e 10 laici (di cui 4 donne). L’età media dei docenti è di 43 anni.Dalla fondazione del San Metodio ad oggi, sono stati conferiti 204 Magisteri (grado accademico valido per l’insegnamento) e ultimamente 6 Diplomi per i diaconi permanenti. Il 31 gennaio 2011 sono stati conferiti i primi tre titoli di Laurea in Scienze Religiose del nuovo ordinamento.
Siracusa, 22 ottobre 2011
Arcidiocesi di Siracusa
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