Se Copernico fosse vivo avrebbe querelato Renzi per calunnia.
La verità è che ormai il Premier è così preso dalla sua principale funzione e cioè dispensare quotidianamente almeno una frase ad effetto per mantenere alta la convinzione dell’opinione pubblica sulla presunta attività riformatrice dell’esecutivo, che non si rende conto della progressiva esagerazione dei suoi interventi, e quindi di scivolare sempre più nel ridicolo.
Il vero timore di Renzi è che venga alla luce l’assoluta inconsistenza delle riforme e la loro congenita incapacità di incidere in profondità rispetto ai veri bisogni di cambiamento del Paese.
Per questo ha definito il Jobs Act una “rivoluzione copernicana”, proprio per nascondere l’assoluta modestia e la scarsissima incidenza della norma in termini di reale cambiamento del più arretrato mercato del lavoro d’Europa.
Infatti il Jobs Act (ma poi perché definirlo in inglese e non semplicemente nel più elegante e naturale italiano “legge del Lavoro”?) non ha innovato alcunché rispetto all’ordinamento preesistente. Anche in merito all’art. 18, dopo mesi di feroci polemiche, litigi mediatici e scioperi generali, alla fine Renzi si è rimangiato tutto, ed il Moloc della illicenziabilità è rimasto inalterato. Neanche la parificazione tra lavoro pubblico e privato ha trovato corretta applicazione, mantenendo un dualismo che offende la logica, la costituzione ed il sacrosanto principio di uguaglianza, oltreché il buon senso e soprattutto è il principale motivo del cronico e insopportabile malfunzionamento dell’apparato burocratico nazionale. Perfino la norma sul licenziamento dei fannulloni, presente fino alla fine nel testo, all’ultimo momento è stata eliminata, in nome di un modello sostenuto dalla scellerata demagogia di un sindacato e di una classe politica senza spina dorsale, incuranti dei danni irreparabili che tali scelte arrecano all’immagine del nostro Paese, in tal modo condannato al sottosviluppo e alla derisione internazionale. Dove sono nel Jobs act le soluzioni ai problemi dell’incapacità di attrarre investimenti nazionali ed esteri nel nostro Paese? Le norme per rendere più semplice e meno vincolante il rapporto tra datore di lavoro e dipendenti, in linea alle condizioni esistenti in tutti gli altri Paesi Europei, nostri concorrenti? E quindi le necessarie modifiche per rendere competitivo il nostro mercato del lavoro con quello globale? Neanche una delle cause antiche di limitazione della competitività del sistema Italia con il resto del mondo è stata rimossa e, quindi, perciò occorreva disturbare Copernico per dimostrare il contrario. Ma l’Europa non abboccherà all’amo della demagogia propagandistica di Renzi, anche perché non a caso i tempi di attuazione della riforma sono biblici, in ragione dei decreti di attuazione, proprio allo scopo di avere un alibi a giustificazione dell’assenza di qualsiasi risultato che possa emergere da tale provvedimento. Certo una palese contraddizione per il Premier del “fare presto”, ma necessaria a coprire il “fare male” di un processo riformatore avviato solo in termini di annunci e buoni propositi, ma del tutto vanificato nei fatti. Se poi si considera la sostanziale marcia indietro in merito ai promessi ammortizzatori sociali con quelli realmente concessi e i seri dubbi finanche sulle coperture finanziarie di questi, si ha un quadro desolante di una riforma che appare del tutto inadeguata alle aspettative e alle necessità del Paese. Ma il vero e del tutto inevaso problema è che qualsiasi riforma del mercato del lavoro non ha alcun senso senza un piano di sviluppo, solo all’interno del quale il lavoro può trovare collocazione. Ed è questo il vero insormontabile limite del Renzi-pensiero, la totale mancanza di un progetto di sviluppo che individui i punti fondamentali di forza per fermare il declino, rilanci l’economia nazionale eliminando tutte le nicchie protezionistiche che ne impediscono la competitività e, soprattutto individui i settori dell’economia con potenzialità di sviluppo, orientando investimenti pubblici e privati nei settori cruciali che faranno la differenza nella competizione economica nei prossimi 20-30 anni, nei quali l’Italia se ben guidata, non mancherà di fare la sua parte, ritrovando il ruolo che le compete tra i Paesi più avanzati della terra.
On. Nicola Bono